La Legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. “Legge Cirinnà”), oltre ad occuparsi della regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, disciplina la materia relativa delle convivenze more uxorio.
In particolare, all’articolo 1, comma 36, fornisce una definizione di “conviventi di fatto”, secondo cui tali sono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Spesso accade che il suddetto legame affettivo che per anni ha contraddistinto il rapporto tra le parti venga meno e non sempre l’interruzione della relazione si manifesta in maniera pacifica, con il mero trasferimento di un partner presso una diversa abitazione, in totale assenza di strascichi nella sfera personale e/o economica.
E’ assai frequente che nel corso di una lunga convivenza, l’ex compagno possa aver effettuato importanti lavori di ristrutturazione della casa di proprietà dell’ex compagna; abitazione nella quale entrambi avevano scelto di condurre la vita familiare e di crescere i figli nati dalla loro unione.
In questo caso, davvero l’ex convivente può essere messo alla porta senza possibilità che gli venga riconosciuto, economicamente parlando, il lavoro svolto per le evidenti migliorie apportate all’unità abitativa della ex?
Ebbene, secondo un recentissimo orientamento giurisprudenziale, “in tema di convivenza more uxorio, un’attribuzione patrimoniale a favore del partner convivente può configurarsi come adempimento di un’obbligazione naturale allorché la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens” (Cassazione civile, Sezione VI, sentenza n. 18721/2021).
Dunque, il punto centrale della questione riguarda proprio il rispetto dei limiti di adeguatezza e proporzionalità della prestazione effettuata dal convivente non proprietario dell’abitazione.
Ai sensi dell’art. 2034 c.c., l’obbligazione naturale è un istituto giuridico in forza del quale il debitore, una volta eseguita la prestazione, non può ottenere la ripetizione di quanto prestato, poiché, pur non avendo alcun dovere giuridico, ha adempiuto ad un dovere morale o sociale; pertanto, qualora emerga che le opere effettuate rispettino tali limiti, l’ex partner non avrà diritto di ripetere alcunché.
Tuttavia, cosa accade qualora tali prestazioni travalichino i suddetti principi di adeguatezza e proporzionalità?
Per quanto concerne l’ambito dei lavori di ristrutturazione effettuati dall’ex coniuge in costanza di matrimonio nell’immobile di proprietà dell’altro, si può sostenere che il marito sia mosso dall’ideale solidaristico su cui si fonda l’istituto stesso del matrimonio; quindi, tali opere dovrebbero essere intese come finalizzate “a rendere più confacente alle esigenze della famiglia l’abitazione messa a disposizione da uno dei due coniugi” e, rientrando tra le obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c., non sarebbero ripetibili (Cass. Civ. Sez. I, 27.05.2015, n. 10942). In tal caso, sulla base di una giurisprudenza pacifica, il coniuge non proprietario “potrà tuttalpiù ottenere un equo indennizzo in base al disposto di cui all’art. 1150 c.c., laddove dimostri che le spese sostenute abbiano aumentato il valore patrimoniale dell’immobile e che tali spese siano state poste in essere prevalentemente per questo fine e non per bisogni della famiglia” (ex multiis, Trib. Torino Sez. II, 11.05.2021, n. 2360; Cass. n. 5866/1995; Cass. n. 13259/2009; Trib. Modena, Sez. I, n. 623/2012; Trib. Brindisi, 26.05.2014; Trib. Bolzano, Sez. II, n. 172/2018).
Tale indirizzo, però, fa leva sul fatto che per poter invocare il diritto all’indennità ai sensi dell’art. 1150 c.c. sia necessario avere la qualifica di possessore o compossessore del bene ed è pacifico che al coniuge possa essere riconosciuto l’equo indennizzo “laddove dimostri che le spese sostenute abbiano aumentato il valore patrimoniale dell’immobili e che tali spese siano state poste in essere prevalentemente per questo fine e non per i bisogni della famiglia” (Trib. Torino, Sez. II, n. 2360/2021).
Ciò detto, la giurisprudenza nel corso degli anni si è evoluta circa la considerazione della figura del conviventemore uxorio, infatti è ormai lapalissiano che a tale soggetto venga riconosciuta la connotazione tipica di detentore qualificato e non di possessore; storica è stata, infatti, la sentenza n. 7214/2013 pronunciata dalla Suprema Corte, secondo la quale: “la convivenza more uxorio quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, senza quindi potersi ritenere che lo stesso sia un possessore”.
Peraltro, proprio in forza della qualifica di detentore qualificato, l’ex convivente in caso di “estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio” (cfr. Trib. Ravenna, 13.07.2016; Cass. Civ. Sez. II, 15.09.2014, n. 19423).
Quindi, il diritto all’equo indennizzo ex art. 1150 c.c. non può essere riconosciuto ed esteso analogicamente anche all’ex convivente, in quanto appunto mero detentore qualificato (Cass. Sez. II, n. 17245/2010).
Al contrario, l’azione ex art. 2041 c.c. (che ricordiamo avere carattere sussidiario ai sensi dell’art. 2042 c.c., in quanto esercitabile soltanto qualora il depauperato non possa esperire alcun’altra azione, e carattere generale, in quanto applicabile ad una serie indeterminata di casi) ha come presupposto la “locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, il che comporta che non può invocarsi la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale” (cfr. Cass. S.U. n. 14215/2002; Cass. n. 15243/2018; Cass. n. 14732/2018; Cass. n. 11330/2019).
D'altra parte, altro elemento da tenere in considerazione è senza dubbio la contiguità temporale tra l’elargizione di denaro o i lavori effettuati dall’ex partner e lo scioglimento del rapporto, poiché “è evidente che l’interruzione del matrimonio e della convivenza, appena sostanzialmente terminati i lavori di rifacimento dell’immobile, determinino un significativo squilibrio e un ingiusto arricchimento a carico del coniuge esclusivo proprietario dell’immobile” (Trib. Torino, Sez. II, 11.05.2021, n. 2360).
In conclusione, tornando al caso de quibus, si può affermare che l’ex convivente non proprietario di casa avrà la facoltà di esperire l’azione di arricchimento senza causa a danno dell’altro qualora i lavori di ristrutturazione non rispettino i limiti di adeguatezza e proporzionalità tipici dell’adempimento delle obbligazioni naturali derivanti dal rapporto di convivenza.
A tal proposito, interessante è anche la sentenza n. 11390/2018 emessa dal Tribunale di Milano, Sez.V, avente ad oggetto la domanda di condanna alla restituzione del denaro speso dalla ex convivente per l’acquisto di elettrodomestici e arredi nella casa dell’ex compagno, nella quale il Giudice ha stabilito la non ripetibilità di tali esborsi, rientrando gli stessi pienamente tra le obbligazioni naturali previste dall’art. 2034 c.c.