Preliminarmente è opportuno fare una breve disamina dell’art. 2301 del Codice Civile, il quale statuisce: “Il socio non può, senza il consenso degli altri soci, esercitare per conto proprio o altrui un'attività concorrente con quella della società, né partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente. Il consenso si presume, se l'esercizio dell'attività o la partecipazione ad altra società preesisteva al contratto sociale, e gli altri soci ne erano a conoscenza.
In caso d'inosservanza delle disposizioni del primo comma la società ha diritto al risarcimento del danno, salva l'applicazione dell'articolo.”
La ratio di tale divieto di concorrenza risiede nell'esigenza di:
- evitare che un socio sfrutti le conoscenze derivanti dalla propria posizione per esercitare attività concorrenti e potenzialmente pregiudizievoli per la società;
- assicurare che il socio non si disinteressi dell'attività svolta dalla società, evitando che lo stesso trascuri eccessivamente l'attività sociale per dedicarsi ad altre iniziative imprenditoriali.
Tuttavia, il divieto di concorrenza previsto dall’art. 2301 c.c. attiene ai soci di società in nome collettivo, ed è applicabile nei confronti dei soli soci accomandatari di società in accomandita semplice, che, per il combinato disposto degli artt. 2315 e 2318 c.c., hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo, e non anche per i soci accomandanti, salvo che per questi ultimi non sia pattiziamente previsto con una disposizione contenuta nel contratto sociale. (Cassazione Civile. n. 10715/2016)
Ebbene, diversamente dalla disciplina della società in nome collettivo ex art. 2301 c.c., per le società di capitali non è previsto un generale divieto di concorrenza per il socio.
Sul punto, il Tribunale di Bologna, Sez. spec. Impresa, con sentenza n. 172/2019, ha stabilito che, nei confronti dei soci di una società di capitali – e dunque di una s.r.l. – siffatto divieto di concorrenza può configurarsi solo se contemplato nello statuto sociale, o nell'atto di cessione della quota, ovvero, al ricorrere dei presupposti richiesti per la configurazione dell’ipotesi di cessione d’azienda.
Escluso, quindi, che un obbligo di non concorrenza sia imposto ex lege, l’iter argomentativo dei Giudici bolognesi muove verso l’individuazione delle specifiche ipotesi nelle quali tale divieto possa operare:
- un divieto di tale portata potrebbe operare solo se previsto in una fonte di natura pattizia, e cioè se previsto nello statuto della società, così come, nello stesso atto di cessione delle quote.
- ove manchino espresse previsioni contrattuali, i Giudici bolognesi chiariscono che sarebbe possibile individuare un obbligo di non concorrenza applicabile alle società di capitali, facendo applicazione analogica, al ricorrerne dei presupposti, dell’art. 2557 del Codice Civile.
A tal proposito, si precisa che l’art. 2557 c.c. trova applicazione in ipotesi di cessione d’azienda, e recita: “chi aliena l'azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che per l'oggetto, l'ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell'azienda ceduta”.
Ebbene, secondo un già consolidato orientamento della Corte di Cassazione, il dettato dell’art. 2557 c.c. può trovare applicazione analogica in materia di società di capitali, trattandosi di una norma che non ha natura eccezionale.
Tuttavia chiarisce il Tribunale di Bologna che, al fine di ritenere applicabile l’art. 2557 c.c. anche al caso di cessione di quote di società di capitali, occorrerà accertare che in concreto “la cessione di quote abbia realizzato un caso simile all'alienazione d'azienda, producendo sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell'azienda”.
Atteso quanto sopra esposto, se si intende, quindi, prevedere un obbligo di non concorrenza per i soci (tranne che nel caso in cui siano soci di s.n.c. e accomandatari di s.a.s.) deve necessariamente procedersi alla sottoscrizione del patto stesso da parte dei soci, prevedendo l’inserimento di apposito patto parasociale nello statuto della società che preveda l’impegno di tutti a non svolgere attività in concorrenza con la stessa e, in ogni caso, tali patti dovranno ricalcare il contenuto ed i limiti di cui all’art. 2596 c.c.
Tale previsione è stata confermata anche da una pronuncia del Tribunale di Ancona Sez. spec. Impresa, n.776/2019 la quale ha stabilito che: “In difetto di espressa previsione, non si può quindi ritenere illecito il comportamento del socio che agisca in concorrenza con la società, se non limitatamente alla facoltà, spettante ai soci non consenzienti, di impugnare le deliberazioni assunte con il voto determinante del socio che agisca in concorrenza, qualora tale deliberazione, per il suo oggetto, induca a ravvisare un conflitto di interessi.
L'ammissibilità, in linea di principio, dello svolgimento di attività concorrente da parte del socio limitatamente responsabile si spiega con una visione sostanzialmente capitalistica della partecipazione sociale, di per sé inidonea ad influire nel concreto svolgersi dell'attività sociale, se non indirettamente, tramite la nomina degli amministratori.
Ovviamente tali prescrizioni sono suscettibili di esplicite previsioni e di ogni integrazione in sede di atti costitutivi, nell'ambito dei quali possono essere inserite clausole che prescrivano divieti analoghi a quelli previsti per il socio di società in nome collettivo, cioè il divieto di esercizio dell'attività concorrente per conto proprio o altrui o di partecipazione a società concorrente in qualità di socio illimitatamente responsabile ovvero il divieto di partecipazione ad altra società a responsabilità limitata avente oggetto sociale concorrente.”
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Premesso che il divieto di concorrenza è esplicitamente previsto solo per i soci delle società in nome collettivo (art. 2301 c.c.) e agli accomandatari (e non agli accomandanti) delle s.a.s. (art. 2318 c.c.): preme precisare che per quanto concerne le società di capitali, l’art. 2390 del Codice Civile disciplina un divieto generale di concorrenza in capo agli amministratori.
Tale norma statuisce che: “non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un'attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell'assemblea. Per l'inosservanza di tale divieto l'amministratore può essere revocato dall'ufficio e risponde dei danni”.
Tale divieto è dunque preordinato a tutelare la società ed è inteso a favorire il perseguimento dell'interesse sociale da parte dell'amministratore, mirando ad evitare che lo stesso, durante il suo ufficio, si trovi in situazioni di dannoso antagonismo con la società.
La violazione di tale divieto comporta dunque una lesione diretta del patrimomio della società e legittima la stessa alla proposizione dell’azione di risarcimento danni, la quale è diretta a far valere la responsabilità dell’amministratore, per la violazione di un dovere “il non fare concorrenza.” (Cassazione Civile. n. 6558/2011).
Fermo quanto sopra esposto, qualora non si tratti di un amministratore, per i soci di una società di capitali – e dunque di una s.r.l. – è necessario prevedere esplicitamente un divieto di concorrenza, in mancanza del quale non è applicabile l’art. 2301 c.c., previsto per le sole società di persone.