Il quadro normativo di riferimento è la Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali del 19 giugno 1980 (ratificata dall'Italia il 25 giugno del 1985 ed entrata in vigore nel 1991), alla quale fa espresso rinvio la legge n. 218/1995 di riforma del diritto internazionale privato con riguardo a tutte le obbligazioni contrattuali dedotte in giudizio dopo il 1 settembre del 1995. La Convenzione contiene una disposizione specifica in materia di contratti lavorativi, che deroga alle regole generali, specificando quali siano i limiti per le parti nella scelta della legge applicabile, oltre a dettare criteri di collegamento speciali, con la ratio specifica di tutelare il lavoratore, parte debole del rapporto di lavoro.
In seguito è entrato in vigore il Regolamento (CE) Roma I, n. 593/2008 del 17 giugno 2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali che, a partire dal 17 dicembre 2009 (per i contratti stipulati dopo tale data) sostituisce la Convenzione di Roma per tutti gli Stati membri, con l'eccezione della Gran Bretagna e della Danimarca. In particolare, la disciplina dei rapporti di lavoro è rimasta pressoché invariata, e l’art. 23 dispone che: “Per quanto riguarda i contratti conclusi da soggetti deboli, è opportuno proteggere tali soggetti tramite regole di conflitto più favorevoli ai loro interessi di quanto non lo siano le norme generali”.
Le regole generali prevedono che la legge applicabile sia scelta dalla volontà delle parti; quest’ultimo è considerato il criterio di collegamento principale per selezionare la legge applicabile (art. 3, par. 1). Solo in mancanza di scelta acquistano rilievo i criteri sussidiari dettati dall'art. 4 con riferimento alle diverse tipologie contrattuali: prevalenza è riconosciuta al criterio della residenza della parte cui spetta la prestazione caratteristica del contratto, salva comunque l'applicazione della legge di un paese diverso con il quale i contratto ha “collegamenti manifestamente più stretti” (art. 4, par. 3). Il criterio della residenza è adottato anche per i contratti conclusi dai consumatori, al fine applicare tutte le tutele di protezione, che sono loro riconosciute, in quanto parte contrattuale “più debole” (art. 6).
Per i contratti di lavoro, quindi, la legge applicabile è rimessa sempre alla volontà delle parti, ma la scelta compiuta non può comportare per il lavoratore la rinuncia alla protezione garantita dalle norme inderogabili della legge che sarebbe applicabile in mancanza di scelta (art. 8, par. 1). Il criterio principale che permette di selezionare tale legge è quello del luogo dove il lavoratore svolge abitualmente la sua attività (lex loci laboris) come previsto dal sopracitato Regolamento. Solo nel caso in cui tale luogo non sia identificabile, si può ricorrere al criterio della sede che ha proceduto ad assumere il lavoratore.
Entrambi i criteri possono essere derogati nel caso in cui “dall'insieme delle circostanze” emerga un collegamento più stretto del contratto con un diverso paese (c.d. “clausola d'eccezione”).
La ratio di questo sistema normativo è quello di offrire al lavoratore maggiore tutela, prevedendo un limite all’autonomia delle parti nella scelta della legge applicabile (come detto poc’anzi, infatti, l’obiettivo della legge è quello di offrire una maggiore tutela al soggetto “debole” del rapporto).
I criteri di collegamento indicati nell'art. 8, par. 2 rappresentano il fulcro del sistema di norme di conflitto in materia di contratti di lavoro, perché ad essi occorre far riferimento sia in assenza di una legge espressamente scelta dalle parti, sia per individuare le norme inderogabili applicabili nel caso in cui tale scelta sia stata effettuata.
Il criterio della lex loci laboris è funzionale a soddisfare una pluralità di esigenze, a partire da quelle del lavoratore che si presume abbia maggior dimestichezza con la legislazione del paese dove svolge l'attività lavorativa e nel quale, di norma, si trova domiciliato. Il ricorso a tale criterio rende poi più probabile la sottomissione del rapporto di lavoro ad un'unica normativa per l'intera sua durata. Ciò favorisce una gestione unitaria del rapporto in tutti i suoi aspetti; ivi compresi quelli oggetto di normativa di diritto pubblico che, avendo un ambito di applicazione strettamente territoriale, è sottratta alle norme di conflitto (si pensi in particolare alla legislazione in materia ispettiva e di tutela della salute e sicurezza).
Il criterio in esame appare, infine, in linea con il principio di parità di trattamento tra lavoratori stranieri e nazionali derivante dall'applicazione delle norme dell’UE relative alla libera circolazione dei lavoratori.
Il criterio per verificare se un luogo di lavoro può considerarsi “abituale” ai fini della selezione della legge applicabile, è stato oggetto di discussione giurisprudenziale. In particolare, si può fare riferimento alle recenti sentenze Koelzsch e Voogsgeerd, nelle quali la Corte di giustizia si è espressa in merito all’interpretazione dell’art. 6, par. 2 della Convenzione di Roma sulla scia della precedente giurisprudenza relativa all’articolo 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968 (oggi art. 19 del Regolamento (CE) n. 44/2001), che adotta il medesimo criterio della lex loci laboris per individuare il foro competente a risolvere le controversie sui contratti di lavoro. Da questa giurisprudenza emerge un’interpretazione “in senso ampio” del criterio de quo, che lo rende applicabile anche ad ipotesi nelle quali il lavoratore si trovi a svolgere in più paesi l’attività lavorativa. Quando ciò accade, il giudice deve individuare lo Stato con il quale il lavoro “presenta un collegamento significativo”. Il che significa che il luogo di svolgimento abituale va identificato nel paese nel quale o a partire dal quale il lavoratore adempie la parte essenziale delle sue obbligazioni ovvero dove si colloca il centro effettivo della sua attività. L’articolo 8, par. 2 del Regolamento recepisce e consolida gli orientamenti della Corte Europea, laddove prevede che la legge applicabile vada individuata anche in quella del paese “a partire dal quale” il lavoratore esegue abitualmente la sua prestazione.
L'art. 8, par. 3 del Regolamento conferma evidentemente, quanto previsto dalla Convenzione di Roma in merito all'adozione del criterio sussidiario della “sede” che ha proceduto all'assunzione. Il criterio trova applicazione solo nel caso in cui non sia possibile identificare il luogo di svolgimento abituale del lavoro; ha dunque natura residuale rispetto a quello della lex loci laboris, in virtù della maggior funzionalità di quest’ultimo a garantire una tutela adeguata al lavoratore. Peraltro, la sua area di applicabilità è stata ulteriormente ridotta dal fatto che per “luogo abituale” va inteso anche quello “a partire dal quale” la prestazione viene svolta, secondo quanto dispone l’art. 8, par. 2 sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia. Questo criterio è residuale e trova applicazione molto limitata e specifica, soprattutto in riferimento al caso in cui la lavoro venga svolto in un luogo non sottoposto alla sovranità di alcuno Stato (es. piattaforma galleggiante).