L’impegno ex art. 12 bis D.L. 74/00 risponde al principio di equità, di giustizia, di proporzionalità.
Si tratta di principi generali di sistema, il cui ambito di applicazione non può essere riservato ai soli reati tributari.
In ogni caso, sarebbe assai irragionevole continuare a impedire all’autore dell’evasione dell’Iva all’importazione di poter restituire quanto dovuto all’Erario utilizzando la merce di sua proprietà, anche considerata l’omogenità dei reati doganali con i reati tributari, tutelando le fattispecie di reato il medesimo bene giuridico (sic!).
Non si tratterebbe di una interpretazione costituzionalmente orientata non consentita.
Nella Relazione illustrativa del decreto 74/00, il legislatore ha esplicitato che sua la volontà è quella di “consentire al contribuente di utilizzare quanto in sequestro per provvedere alla restituzione all’Erario”.
Se così non fosse, l’indiscriminata applicazione dell’art. 301, co. 1, TULD, porterebbe a esiti ingiusti e sproporzionati.
In via di principio, la natura (anche) sanzionatoria del confisca doganale deve riconoscersi quando è elevato il grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere.
Nel caso che ci occupa, tale connotazione risulta essere pacifica, se si tiene di conto dei “criteri” di Engel.
La combinazione tra una sanzione pecuniaria amministrativa di eccezionale severità e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere “punitivo” come quella rappresentata dalla confisca dell’oggetto del reato, oltre alla pena prevista per il reato, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati.
Negare la natura sanzionatoria di questa confisca, con osservazioni che traessero spunto dalla rubrica dell’art. 301 TULD, costituirebbe mera elusione delle disposizioni fondamentali quali gli artt. 6 e 7 CEDU, non potendo essere concesso agli Stati contraenti di classificare a loro discrezione una misura come sanzionatoria o meno.
Peraltro, già la Corte Costituzionale – dichiarando l’illegittimità degli artt. 301, primo comma, del citato testo unico delle disposizioni in materia doganale e dell'art. 87, primo comma, della legge 17 luglio 1942, n. 907 – ravvisò che “l'applicazione dell'istituto della confisca obbligatoria... snatura il carattere della misura di sicurezza così come è strutturata e introdotta dal codice vigente che ne fa uno strumento anomalo di ambigua collocazione giuridica”.
Riconosciuta la natura sanzionatoria della confisca doganale nel caso di specie, si tratta di definire l’ambito di intervento dell’autorità giudiziaria, prima svolgendo una premessa essenziale sulla connotazione della proporzionalità della pena, in via assoluta.
A mente dell’art. 42, par. 1, CDU, le sanzioni “devono essere effettive, proporzionate e dissuasive”. L’art. 7, par. 1, Direttiva PIF, stabilisce che “i reati di cui agli articoli 3, 4 e 5 siano puniti con sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive”.
Il parametro della proporzionalità fa sì che le autorità nazionali non possano imporre restrizioni alle libertà e ai diritti dei cittadini in misura superiore a quella strettamente necessaria per il raggiungimento dello scopo perseguito dalla norma punitiva. Il potere di punire degli Stati non è, infatti, illimitato.
La CGUE, nello specifico, ha stabilito che il rispetto del concetto di proporzionalità deve essere valutato alla luce (i) della natura e della gravità dell’infrazione che la sanzione mira a penalizzare; (ii) delle modalità di determinazione dell’importo della sanzione (CGUE, causa C-272, Equoland, del 17 luglio 2014, punto 35; cause C-95/07 e C-96/07, Ecotrade, dell’8 maggio 2008, punti da 65 a 67; causa C-284/11, EMS-Bulgaria Transport, del 12 luglio 2012, punto 67). Pertanto, una sanzione prevista in misura fissa, senza che sussista la possibilità di una sua gradazione e parametrazione rispetto al caso concreto, potrebbe comportare la violazione del principio in commento (sic!).
Non solo. Le sanzioni, per essere proporzionate, devono essere fra loro coordinate. Non a caso l’assenza di coordinamento è stata recentemente stigmatizzata dai giudici unionali nella causa C-524/15, Menci, del 20 marzo 2018. La CGUE, in tale occasione, ha affermato che “un cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale può essere giustificato allorché detti procedimenti e dette sanzioni riguardano [...] scopi complementari”. Ha, tuttavia, specificato che, posto il principio di proporzionalità di cui all’art. 49, par. 3, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (CDFUE), si “richiede che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto da una normativa nazionale [...] non superi i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi”, ciò implicando “l’esistenza di norme che garantiscano una coordinazione finalizzata ridurre a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che un siffatto cumulo comporta per gli interessati”.
Tale indirizzo interpretativo, peraltro, è stato recepito recentemente dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 112 del 6 marzo 2019, in cui è stato affermato che “il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena”, per essere legittimo, non deve risultare “eccessivamente afflittivo per l’interessato, in rapporto alla gravità dell’illecito”.
La questione di costituzionalità aveva investito l’art. 187- sexies del d. lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui esso assoggettava a confisca per equivalente non soltanto il profitto dell’illecito ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito (!).
Il giudice a quo dubitava che tale disposizione contrastasse: in primo luogo, con gli artt. 3 e 42 della Costituzione; in secondo luogo, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848; in terzo luogo, con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
L’art. 187-sexies del d. lgs. n. 58 del 1998 prevedeva al comma 1 che «[l]’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente capo importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo».
Il giudice a quo riteneva che la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente non solo al «profitto» ricavato dall’illecito, ma anche al «prodotto» dell’illecito stesso – ritenuto pari alla somma del «profitto» e dei «beni utilizzati per commetterlo» – si sarebbe risolto in una sanzione “punitiva” di carattere sproporzionato rispetto al disvalore dell’illecito, e comunque in una compressione eccessiva del diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.
Da ciò derivavano i vulnera ai parametri costituzionali ed europei (questi ultimi per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) invocati dal rimettente.
In particolare, il carattere sproporzionato per eccesso della misura sarebbe suscettibile, secondo il giudice a quo, di tradursi in una violazione tanto dell’art. 3 Cost., quanto delle norme che – a livello costituzionale ed europeo – tutelano il diritto di proprietà: l’art. 42 Cost., da un lato; l’art. 1 Prot. addiz. CEDU e l’art. 17 CDFUE, dall’altro. Inoltre, dalla natura sostanzialmente “punitiva” della confisca in parola discenderebbe una possibile violazione dell’art. 49 CDFUE, che sancisce il principio per cui “[l]e pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato»; principio che, secondo il rimettente, ben potrebbe essere esteso anche alle sanzioni di carattere sostanzialmente “punitivo” come quella all’esame”.
La Corte Costituzionale ha ritenuto fondate le questioni, in relazione a tutti i parametri invocati.
In materia penale, la Corte considera costituzionalmente illegittime pene manifestamente sproporzionate per eccesso in relazione alla gravità del reato, in ragione del loro contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. (punto 8.1.). Sanzioni manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità dell’illecito violano, dal canto loro, l’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione, nonché – nell’ambito del diritto dell’Unione europea – l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE (punto 8.2.).
Ad avviso della Corte la confisca estesa al prodotto e alle cose che furono utilizzate per commettere il reato “è in contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, che impongono soltanto la confisca del profitto che l’autore abbia ricavato dagli illeciti in questione” (punto 8.5.).
Nell’ambito del diritto penale, la costante giurisprudenza di questa Corte riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione delle pene da comminare per ciascun reato. Tale discrezionalità si estende in linea di principio al quomodo così come al quantum della pena, essendo riservata al legislatore – in forza dello stesso art. 25, secondo comma, Cost. – la scelta delle pene più adeguate allo scopo di tutelare i beni giuridici tutelati da ciascuna norma incriminatrice, nonché la determinazione dei loro limiti minimi e massimi.
Tale discrezionalità è soggetta, tuttavia, a una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso, che viene in questa sede in considerazione.
I parametri costituzionali invocati sono quelli desumibili dagli articoli 3 e 27 della Costituzione.
La considerazione, accanto all’art. 3 Cost., del principio di personalità della responsabilità penale sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost. – da leggersi anch’esso alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al terzo comma dello stesso art. 27 Cost. – è, inoltre, alla base dell’ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena, pure enucleato da una risalente giurisprudenza di questa Corte, che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel loro ammontare (sentenza n. 222 del 2018, che richiama in senso conforme le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963). Tale canone esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore.